Luigi Saravo porta in scena una versione rivisitata del classico di Moliere, con più bassi che alti
Luigi Saravo, nel presentare il suo allestimento de “L’Avaro” di Moliere, in scena al Teatro Manzoni di Milano fino al 2 marzo, aveva affermato: “Vedendo la prima scena all’apertura del sipario il pubblico deve pensare di aver sbagliato teatro”. Obbiettivo centrato. Anzi, superato: con ogni probabilità il pubblico penserà che ad aver sbagliato teatro sia stato soprattutto Saravo.
Il preludio di corpi avvinghiati e mezzi nudi, avvolti da una scenografia a dir poco bizzarra – due vetrinette da atelier, contenenti oggetti e vestiti moderni – e immersi in una musica contemporanea straniante lascia subito intendere che i testi classici non siano il suo forte. Lo conferma il suo curriculum, ricchissimo di opere da lui stesso scritte o comunque riadattate – scelte che dimostrano vastità d’interessi e originalità – ma povero di esperienze in quegli allestimenti rigorosi che meriterebbe un Moliere.
Non ci stancheremo mai di affermare l’assurdità di quelle regie, di prosa come di lirica, che si piccano di attualizzare opere del tempo passato.
Il fatto stesso che venga voglia di portarle ancora in scena, e agli spettatori di assistervi, significa che quelle opere sono di per sé attuali, rese eterne dal loro valore artistico e letterario. Plauto non abbisogna dei jeans, nè Shakespeare del mobilio Ikea: il grande autore è quello che risulta interessante di suo, anche a distanza di secoli, senza interventi esterni. In realtà Saravo sembra il primo ad esserne consapevole. Sentendogli descrivere lo spettacolo si capisce che egli non ha voluto ricercare la solita scorciatoia furba per attrarre un pubblico giovane, ma ha inteso proporre un ragionamento a cavallo tra passato e presente.
Purtroppo, per quanto suggestiva, questa tesi è troppo sofisticata per essere compresa, ed è resa in modo troppo forzato per essere apprezzata. Il miscuglio tra scudi ed euro, così come quello tra carrozze a cavalli e pantaloni leopardati, o l’inserimento di un inutile coro di bambini a sottolineare l’ossessione per il denaro, producono più un pasticcio che un invito alla riflessione.
Il pubblico che si reca a teatro ha il dovere di presentarsi preparato, ma ha anche il diritto di non ricorrere alle didascalie per capire ciò che sta vedendo. Se invece un regista è costretto a spiegare quel che ha fatto, quasi in forma di excusatio non petita, vuol dire che lo spettacolo non funziona. Ad aumentare la confusione è stata la scelta di Ugo Dighero per il ruolo del protagonista.
Nel 1997 Giorgio Strehler, quando portò in scena al Lirico l’ultimo grande Avaro del teatro italiano (anche se formalmente a firmare la regia fu Lamberto Puggelli), volle a tutti i costi Paolo Villaggio nei panni di Arpagone. Fino a quel momento ad interpretare il personaggio erano stati solitamente attori dall’aria austera come Sergio Tofano o Paolo Stoppa.
Strehler ne diede una lettura diversa, forse più vicina a come la intendeva il suo creatore, tratteggiandolo come un uomo più egoista che avaro, pronto a concedere a sé stesso ciò che non elargirebbe mai al prossimo, nemmeno ai suoi figli. In questo senso si rivelò perfetta la scelta di Villaggio, uomo dall’aspetto tanto gaudente quanto burbero, che diede corpo alla chiave interpretativa proposta da Strehler, esaltando così quella comicità grottesca di cui è intrisa la commedia.
Ciò non accade invece con l’Arpagone di Dighero, in cui prevale la naturale tendenza dell’attore a una comicità di altro genere, buffa e scanzonata.
Di essa si ritrovano vittime anche gli attori giovani, costretti a recitare battute nella lingua di fine Seicento ma adottando postura, atteggiamento e stile complessivo, a partire dal vestiario, dei ragazzi del 2025. La più in parte è parsa Mariangeles Torres nel ruolo della ruffiana Frosina (ma interpreta anche il servo Saetta), forse perché, anche tre secoli dopo, i ruffiani sono sempre uguali a sé stessi.
L’entrata in scena di Frosina non soltanto introduce nello spettacolo il personaggio più centrato, ma comporta un risollevamento generale della messinscena. Il meccanismo dei maneggi matrimoniali e degli equivoci farseschi viene infatti ben gestito dagli attori e finalmente anche dal regista, che limita qui le invenzioni per lasciare spazio al Moliere più puro.
Nella parte finale, quando Arpagone subisce il furto della cassetta contenente i diecimila scudi, offre il suo meglio anche Dighero, proprio perché tiene a bada la verve più comica per prodursi in un efficace misto di disperazione e rabbia.
Paradossalmente, la buona seconda parte lascia però ancor più l’amaro in bocca per uno spettacolo che non può dirsi riuscito, ma che avrebbe potuto esserlo se fosse stato dotato di maggior rigore classico ed esentato da invenzioni troppo ardue da gestire.
Di seguito trovate il trailer di L’Avaro, al Teatro Manzoni di Milano dal 18 febbraio al 2 marzo: