Iliade. Il gioco degli dei: la recensione dello spettacolo di – e con – Alessio Boni (Teatro Manzoni)
26/03/2025 news di Alessandro Gamma
Il mito riscritto tra teatro, potere e immaginario pop

L’epica omerica non è un racconto del passato: è una lente attraverso cui osservare, ancora oggi, le tensioni che ci abitano. Iliade. Il gioco degli dei, spettacolo diretto da Alessio Boni con Roberto Aldorasi e Marcello Prayer in scena dal 25 marzo al 6 aprile al Teatro Manzoni di Milano, si confronta con questo nucleo ardente della tradizione occidentale per riportarlo al centro del dibattito contemporaneo.
In scena, il poema non viene semplicemente narrato, ma scomposto, ricomposto, fatto esplodere in una riflessione sul potere, la guerra e l’identità.
L’operazione è tutt’altro che filologica. Il testo omerico è il punto di partenza per un gioco teatrale che travalica i limiti del tempo e del luogo. Zeus, Achille, Ettore, Elena non sono figure lontane, scolpite nel marmo della classicità, ma personaggi in carne e ossa, portatori di contraddizioni, emozioni, nevrosi. Le divinità greche si muovono sulla scena come esseri ora ridicoli, ora minacciosi, spesso crudeli, mai davvero onnipotenti. Il loro agire, più che dettare il destino, lo contamina, lo distorce, lo rifrange. E in questa tensione si riflette l’uomo: parte del gioco, ma incapace di controllarne le regole.
La scelta di porre Zeus – interpretato da Boni stesso – al centro della scena, come arbitro di un gioco ambiguo, rende esplicita l’idea che il potere divino è tutt’uno con la manipolazione. Non c’è neutralità in questo Olimpo: gli dèi sono faziosi, volubili, pericolosi. Ma non distanti. Anzi, sembrano emergere dal profondo della psiche umana, come pulsioni ancestrali: la collera, l’orgoglio, la sete di vendetta. L’Olimpo, così come rappresentato, non è altro che lo specchio deformante delle nostre paure più antiche.
Lo spettacolo si muove ondivago tra toni differenti. C’è l’epicità del racconto omerico, certo, ma anche l’ironia, il grottesco, il sogno. Le parole si alternano a momenti di forte fisicità, in un continuo gioco di evocazioni. La scena è spoglia, ma potente: un’arena mentale dove si combattono guerre simboliche e interiori. Il campo di battaglia di Troia diventa quello del nostro tempo: un paesaggio devastato, che non ha bisogno di effetti speciali per mostrarsi. Basta il corpo dell’attore, il suono, il buio.
In questa rilettura, il confine tra divinità e umanità si fa sempre più sottile. I personaggi si caricano di senso in un’ottica psicologica più che storica. Achille non è solo l’eroe invincibile: è l’uomo lacerato dal dolore, dalla perdita, dalla rabbia. Elena non è solo causa di guerra: è simbolo del desiderio e del disprezzo che l’umanità riversa su ciò che non può possedere. Ettore è il padre e il guerriero, il simbolo di una dignità tragica che si oppone all’isteria del conflitto. Tutto è ambivalente, e proprio in questa ambiguità risiede la forza dello spettacolo.
In controluce, si colgono echi dell’immaginario popolare che ha nutrito generazioni cresciute tra spade, sandali e divinità impacciate: Hercules e Xena, ad esempio, serie che negli anni ’90 hanno risemantizzato il mito greco in chiave fantasy-avventurosa, spesso con ironia e un’estetica pulp. Quelle figure oggi risuonano come parodie affettuose di un Olimpo che nel frattempo ha perso ogni solennità. Ma Iliade. Il gioco degli dei non ride degli dèi: li espone. Li sveste. Li mostra come emanazioni di un inconscio collettivo che chiede spiegazioni, e non si accontenta più di eroi muscolari e battaglie spettacolari.
Anche il riferimento al mondo del cartone animato Pollon, con i suoi dèi umanizzati e ridicolizzati, torna alla mente. Là, Zeus era un buffo patriarca spesso incapace di gestire il caos familiare. Qui, assume tratti ancora più inquietanti: è un giocatore cinico, padrone delle sorti altrui, eppure sempre pronto a mascherare il proprio potere con un sorriso. Il dio-burattinaio si rivela, in fondo, una metafora dell’uomo che vuole essere dio, che crede di controllare la storia ma ne è solo vittima.
Più profondo ancora è il legame tematico con American Gods, il romanzo di Neil Gaiman in cui gli antichi dèi sopravvivono solo finché qualcuno crede in loro. Lo spettacolo sembra suggerire che gli dèi dell’Iliade non ci hanno mai abbandonato: sono vivi nelle nostre guerre, nei nostri conflitti sociali, nel culto della forza, del possesso, del sangue. Non sono entità trascendenti, ma simboli persistenti. E, come in Gaiman, la domanda si fa urgente: cosa succede quando gli dèi muoiono? O peggio: quando continuano a vivere, ma solo nella parte più distruttiva di noi?
La narrazione non segue una linea temporale rigida: frammenti, episodi, dialoghi si susseguono in un montaggio emotivo, dove ogni personaggio sembra prendersi carico di un pezzo del senso. Non c’è una morale, né una verità unica: ci sono tensioni. Le parole diventano pietre, le voci si fanno corpo, la guerra diventa interiore. Non è solo Troia a bruciare: siamo noi, ogni volta che accettiamo il ricatto della violenza, che ci lasciamo sedurre dal mito del potere, che crediamo ancora, ostinatamente, negli dèi sbagliati.
Lo spettacolo si conclude lasciando spazio al silenzio. Nessuna catarsi, nessuna chiusura rassicurante. Solo una domanda: chi siamo oggi, noi, tra gli dèi e gli eroi? Forse, come suggerisce Alessio Boni in una riflessione fuori scena, “la vera lotta è dentro l’uomo“. Ed è una guerra che si combatte ogni giorno.
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