Voto: 6.5/10 Titolo originale: Il mio nome è vendetta , uscita: 30-11-2022. Regista: Cosimo Gomez.
Il Mio Nome è Vendetta: la recensione del film action con Alessandro Gassmann (per Netflix)
01/12/2022 recensione film Il mio nome è vendetta di Francesco Chello
L'opera terza di Cosimo Gomez zittisce le critiche preventive rivelandosi un solidissimo revenge thriller, teso, tecnicamente valido, con un protagonista in parte e un'opportuna dose di violenza e morte a corredo. Un buon esempio di come sia possibile realizzare un prodotto (di genere, in Italia) riuscito e personale rifacendosi a uno schema volutamente derivativo

Parla italiano una delle ultime release Netflix. Mi riferisco a Il Mio Nome è Vendetta, produzione Colorado Film (che sui titoli di coda viene dedicata alla memoria di Alessandro Valori) disponibile in esclusiva sul colosso dello streaming a partire dal 30 novembre. Un titolo che mi incuriosiva, per svariate ragioni.
Per il filone di appartenenza, da sempre nelle mie corde. Perché, appunto, produzione italiana di un film di genere, e quindi da sostenere con almeno una visione a prescindere. Perché in qualche modo mi aveva riportato alla mente La Belva che mi era piaciuto un bel po’ (la recensione), per tematiche comunque parenti e Netflix anche in quel caso a fare da distributore esclusivo.
Per l’ondata di odio preventivo che mi è capitato di leggere durante la campagna promozionale del film, d’altronde se la polemica chiama io rispondo. Che a quel punto volevo capire perché in tanti avevano preso di mira proprio questo film, con critiche costruite su preconcetti immotivati e sfottò simpatici come un dito nel c … olon.
E’ successo puntualmente tra i commenti ai nostri post in cui davamo notizie del progetto, idem per altre testate, persino sui social di Netflix ad ogni pubblicazione inerente a Il Mio Nome è Vendetta. Che se lo chiedete a me, sono utenti che farebbero meglio a ricredersi – e tra poco ci arrivo. Ma il punto non è questo, è che non ha molto senso questo ‘movie shaming’ a bocce ferme.
E non mi riferisco ad una critica o un parere argomentato (per quanto soggettivo) come reaction ad un trailer, diritto tutto sommato legittimo, ma ad attacchi (spesso camuffati attraverso ironia fastidiosa) che sono palesemente per partito preso. Al di là di quello che poi può essere effettivamente il valore del film.
Vista la premessa, a questo punto contestualizziamola. Facendo un passo indietro. Nel 2008 esce Taken, da noi ribattezzato Io Vi Troverò, titolo italiano che nelle edizioni home video successive diventa sottotitolo di quello originale che intanto era diventato universalmente conosciuto, oltre al fatto che erano nati due sequel e, diciamocelo, Io Vi Troverò 2 e 3 suonavano decisamente male.
Il protagonista è Liam Neeson, che per quanto non avesse mai disdegnato il cinema di genere, si ritrova inaspettatamente (tanto per lui quanto per noi) action hero a 56 anni. Taken non inventava di certo un genere, quello dell’action thriller di vendetta che esisteva da decenni e che da Charles Bronson in giù vantava molteplici esempi.
Il film di Pierre Morel rinverdiva la formula, un titolo valido il cui meritato successo ha dato vita ad un filone nel filone. Un attore maturo che ha passato i cinquanta, possibilmente con un background (anche) drammatico, nei panni di un personaggio con skills sopra la media tenute nascoste in un periodo della sua vita di calma apparente che viene interrotta nel momento in cui un episodio personale (preferibilmente familiare) stuzzica il can che dorme scatenando sostanzialmente l’inferno.
Mentre Liam Neeson da lì in avanti avrebbe avuto il suo filone personale, negli ultimi anni abbiamo visto questa stessa formula in diverse salse, che non c’è niente di male a dare vita ad epigoni (se fatti come si deve, ovviamente) che quel filone lo rimpolpano e lo rafforzano. Il cinema ha bisogno anche di questo. Posso ritenere sacra la figura dell’Ispettore Callahan ma trovare godibile un McQ, considerare Die Hard una pietra miliare ma divertirmi anche con Trappola in Alto Mare, vivere nel culto di Rambo II ma sfiziarmi con Missing in Action. Vabbè, ci siamo capiti.
Epigoni, dicevo, che hanno ispirato anche produzioni di altri paesi, tra cui il nostro naturalmente. Che già due anni fa si era infilato (con merito) nella categoria proprio col sopracitato La Belva. E che ora ci riprova con Il Mio Nome è Vendetta. Peccato che questo nuovo tentativo, a partire da un titolo volutamente derivativo, ha finito per mandare in tilt la parte tossica dell’utenza social cinefila che ha iniziato ad attaccare il film senza cognizione di causa accusandolo di essere patetica imitazione di modelli stranieri.
Ora, non volendo scomodare gli anni d’oro del nostro cinema di genere in cui eravamo maestri nel prendere ispirazione all’estero per mettere in mostra maestranze e talenti nostrani, mi fa ridere (non è vero, mi sale il crimine) l’utente medio che per anni rompe le palle lamentandosi del fatto che in Italia si fanno solo drammi e commedie per poi smontare puntualmente (e a prescindere) gli apprezzabili tentativi di tornare ad affrontare altri generi, quelli che piacciono a noi.
Senza contare chi poi ha spostato indegnamente quegli attacchi sul personale, destinatario Alessandro Gassmann, che per qualche ragione doveva pagare le sue opinioni sul COVID-19 (probabilmente legittime, considerando che incoraggiava vaccino e senso di responsabilità a differenza di colleghi che farneticano e vanno in giro con magliette discutibili …), oltre a chi per sminuirlo buttava nel discorso senza alcuna ragione apparente un Pierfrancesco Favino innalzato a presunto e inarrivabile metro di paragone per gli altri attori italiani che a questo punto, Vostro Onore, chiedo l’infermità mentale per gli imputati.
Insomma l’ho presa larga, ma erano cose che volevo dire prima ancora di constatare come fosse effettivamente Il Mio Nome è Vendetta, perché il giudizio sul film non sposta il concetto in un senso o nell’altro. Certo, se poi salta fuori che quel film è decisamente buono, allora ecco che i sassolini dalla mia scarpa diventano proiettili. Come quelli a cui ricorre Santo Romeo aka Domenico Franzè, il personaggio interpretato da Alessandro Gassmann.
Il Mio Nome è Vendetta, è un film che non si nasconde, mostra fiero l’appartenenza a un filone di cui coglie ispirazioni e stilemi consolidati. Fin dal titolo, che opta per una di quelle soluzioni tipicamente nostrane tanto semplici quanto sensazionalistiche che vengono spesso affibbiate dalla nostra distribuzione a determinati titoli stranieri, che in quei casi spesso mi ci incazzo ma in questo è come se trovasse una sua coerenza ideologica.
Passando per il classico prologo pieno d’amore da ‘happy family’, in cui piano piano sale la puzza di morte e tu cerchi di scorgere qualche accenno di rigor mortis sul volto dei personaggi per capire a chi di loro toccherà il destino infausto. E ancora, il passato segreto che inevitabilmente ritorna. Il nascondiglio con dotazione standard di banconote, documenti, targhe e cellulari.
Potrei continuare, ma vi ruberei tempo per elencare elementi e situazioni evidentemente noti, che però trovano la loro puntuale collocazione con aderenza, estremamente funzionali al contesto. Perché ci vuole bravura anche nel sapere utilizzare schemi preesistenti, rendendoli in qualche modo propri. Ed è quello che fa Cosimo Gomez (anche sceneggiatore insieme a Sandrone Dazieri e Andrea Nobile), alla sua terza regia ma con un lungo background da production designer e art director, campo da cui sembra mutuare l’arte dell’individuare elementi altrove ed assemblarli secondo il proprio stile.
La sua è una direzione interessante, dinamica, dotata di senso del ritmo – concitato e sostenuto per buona parte del film (quella dall’anima revenge), riflessivo nei momenti in cui si focalizza sulle relazioni. La violenza è cruda, il campionario è completo e passa per una buona gestione dell’azione, in cui si nota pianificazione, coordinazione e riprese mirate.
Si passa da corpo a corpo che prediligono intensità e realismo a un uso generoso di armi da taglio con tanto di spiegazione (nel corso dell’immancabile addestramento padre/figlia) dei vari tipi di pugnalata/conseguenze. Con una di queste ferite che, nel caso del protagonista, viene affrontata con verosimiglianza e patema. Sparatorie a breve ed ampio raggio, un inseguimento (con incidenti) nello stretto di un parcheggio sotterraneo, l’esplosione fragorosa con tanto di stuntman (stoico) in fiamme.
La fotografia di Il Mio Nome è Vendetta ha un tono freddo, bluastro, a sottolineare lo stacco emotivo con i colori più vivaci del prologo. In linea con la scelta delle location di una storia in qualche modo on the road, che parte (solo idealmente) dalla Calabria, arriva all’Alto Adige che esplicita a dovere quel senso di luogo incontaminato adatto a chi cerca di rinascere dalle macerie di una vecchia vita che credeva sepolta, per chiudere nel cemento di Milano e della sua periferia.
Determinante il ruolo dello score musicale firmato da Giorgio Zampà e Marta Lucchesini, un mix di elettronica e percussioni che scandisce l’incedere della tensione (e che per qualche motivo mi ha ricordato alcuni stralci di quello di Gomorra – La Serie), con lo spazio per qualche brano esterno come Thunder degli Imagine Dragons o Boilermaker dei Royal Blood.
La variazione sul tema è azzeccatamente nostrana. Nessun trascorso militare, i fantasmi del passato che diventano mostri del presente provengono dall’italianissima ‘ndrangheta. La matrice malavitosa non sposta il target di Il Mio Nome è Vendetta, che non trasloca nel ‘mafia movie’, ma resta fedele al suo titolo e il suo spirito revenge.
Una vendetta animata da sangue calabrese che scorre su luoghi del nord Italia. Calabrese come l’attore col quale si è esercitato Alessandro Gassmann per arrivare alle riprese preparato in un accento credibile. Indice di una dedizione di chi ha affrontato il compito con professionalità, impegno, spirito di sacrificio anche fisico.
Ma anche tanto entusiasmo, per un tipo di ruolo diverso dal solito da lui stesso definito la realizzazione di un sogno, nella speranza (e noi con lui) di ottenerne altri simili, per il quale dice di essersi ispirato (ed aver studiato) proprio a quel Liam Neeson di cui parlavamo in precedenza.
Lui che ha lavorato anche all’estero, come quando aveva interpretato il villain in Transporter 2 fronteggiando un action man per antonomasia come Jason Statham. E che si dirà divertito di aver partecipato ad un film dal bodycount così alto, di cui ben 23 vittime al suo attivo (come mi segnalava mia madre, che l’intervista l’ha vista con attenzione).
Gassmann junior ci arriva in forma, a dispetto dei 57 anni portati benissimo. Il suo è un personaggio bivalente, che sa essere rassicurante come padre e marito amorevole, ma anche brutale e spietato come macchina di morte. Ed assesta, in entrambi i casi, le battute giuste. Col calore di quella voce cavernosa che ha ricevuto in eredità da papà Vittorio.
Mi è rimasto in mente un ‘cu fu?!’ pronunciato con rabbia perentoria, per poi congedarsi dal malcapitato di turno con un ‘hai solo un modo per salvarti, prega Dio’. Che fanno il paio con i discorsi che animano un rapporto con la figlia contraddistinto dal pugno sul cuore, dalla lettera scritta sul retro di una foto ai riferimenti tratti da Il Richiamo della Foresta, romanzo di Jack London, a partire dalla significativa didascalia che apre Il Mio Nome è Vendetta – ‘Uccidere o essere uccisi. Questa è la legge. Mostrare pietà è solo un segno di debolezza’.
Rapporto con la figlia che nel corso dell’on the road passa dall’amore all’odio e di nuovo all’amore, ricordandoci che il passato dei genitori può ripercuotersi sui figli ma anche che le cazzate dei figli possono mettere nei guai i genitori (oltre che i social possono fotterti, ma non vorrei divagare).
Una relazione in cui naturalmente deve avere il suo peso anche il personaggio di Sofia, portato in scena con diligenza dalla giovane Ginevra Francesconi, ragazzina presa inizialmente da una diffidenza lecita ma quasi irritante, per poi comprendere e diventare combattiva e collaborativa. Perché l’amore tra un genitore ed un figlio va oltre ogni cosa.
L’eleganza di Remo Girone è ideale per il ruolo Don Angelo, il vecchio boss pronto a rischiare il suo impero pur di vendicare la morte del figlio avvenuta una ventina di anni prima. In pratica, la vendetta è un vero e proprio filo conduttore, sentimento che alimenta entrambe gli schieramenti dello scontro. Alessio Praticò è suo figlio Michele (il secondogenito), cagasotto ma profondamente meschino, privo di quell’onore tipico dei mafiosi old school.
Il finale chiude adeguatamente il cerchio di Il Mio Nome è Vendetta, più malinconico invece il prefinale che può generare un po’ di rammarico in quelli come me che quando si divertono lascerebbero sempre una porticina aperta.
Riepilogando, Il Mio Nome è Vendetta si rivela un solidissimo action thriller di vendetta, teso, tecnicamente valido, con un protagonista in parte ed una opportuna dose di violenza e morte a corredo. Un buon esempio di come sia possibile realizzare un prodotto riuscito e personale rifacendosi a uno schema volutamente derivativo.
Un buon esempio di come sia possibile fare del sano e concreto cinema di genere in Italia, mescolando italianità e taglio internazionale (nel senso buono dei due termini). Un buon esempio di come sia possibile zittire l’odio preventivo di chi dovrebbe essere privato del collegamento a internet.
Di seguito – sulle note di Snoohpyt dei Doolb Layor – trovate il full trailer di Il Mio Nome È Vendetta, su Netflix dal 30 novembre:
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